Onorevoli Colleghi! - La riforma del sistema di intelligence non è più rinviabile. È opinione comune che le drammatiche trasformazioni del quadro geopolitico internazionale impongono la definizione di un nuovo assetto che superi quello ormai datato che risale al 1977 (legge 24 ottobre 1977, n. 801). Tuttavia è opportuno precisare che il mutamento degli scenari internazionali non comporta di per sé l'obsolescenza dei meccanismi istituzionali. Un quadro istituzionale ben strutturato dovrebbe consentire l'adattamento delle funzioni pubbliche ai mutamenti incessanti delle dinamiche storiche. D'altro canto le trasformazioni del quadro internazionale devono essere interpretate e stimolare delle risposte, che non sono scontate a priori.
      È evidente che dopo l'11 settembre 2001 sono cambiati i rischi per la nostra sicurezza, dal momento che sono emerse nuove minacce, che non possono essere fronteggiate come in passato, poiché derivano da un quadro geopolitico profondamente cambiato nel quale viene messo in discussione l'assetto pacifico delle relazioni internazionali, drasticamente delegittimato dalla teoria della guerra preventiva e permanente. È altrettanto evidente che, nel momento in cui emergono orientamenti devastanti per la legalità internazionale, fondata sulla Carta delle Nazioni Unite, che reintroducono il ricorso alla violenza bellica e al terrorismo come strumenti per regolare i conflitti fra i vari attori dello scenario internazionale, questo mutato scenario si riflette negativamente sulla sicurezza del nostro Paese. Tuttavia bisogna sfuggire all'insidia di trasformare il problema - reale - della sicurezza in una questione ideologica, diventando prigionieri della logica politica dell'emergenza.

 

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      Una logica, importata d'oltreatlantico, che cerca di fare breccia anche nel nostro Paese e che spinge taluni opinionisti a fare l'elogio della tortura e delle sparizioni forzate e ad invocare poteri di emergenza - al di fuori della Costituzione - per combattere la cosiddetta «guerra al terrore globale».
      In realtà tutte le situazioni in cui viene imposto uno «stato d'eccezione» si giustificano sempre con l'esigenza di fare fronte ad uno stato di guerra, vero o presunto o - addirittura - creato ad arte. Senonché lo stato d'eccezione è in se stesso una minaccia ai diritti dei cittadini e al benessere delle istituzioni.
      In Italia l'apologia dell'illegalità e della violenza in nome della ragion di Stato è un'operazione smaccatamente ideologica che mira a creare l'humus politico-culturale idoneo a rendere accettabili all'opinione pubblica le nuove impostazioni strategiche che destrutturato la legalità internazionale.
      Questa operazione deve essere respinta con durezza, smascherandone la sostanza meramente ideologica. Una cosa sono l'ideologia della sicurezza e l'uso strategico della paura, altra cosa è la tutela della sicurezza, che nello Stato democratico coincide con la tutela dei diritti inviolabili di ciascun uomo e con il benessere delle istituzioni.
      È chiaro che per la tutela effettiva e non ideologica della sicurezza occorre comprendere i mutamenti degli scenari internazionali e adeguarsi ai nuovi rischi, ma comprendere non vuol dire accettare, giustificare o addirittura rendersi complici delle scelte che producono l'insicurezza e il crescente caos che dobbiamo fronteggiare nelle relazioni internazionali.
      Di fronte allo scenario evocato, la tutela effettiva della sicurezza comporterebbe - tutt'al più - l'esigenza per il nostro Paese di tirarsi fuori dalla cosiddetta «guerra globale» condotta da altri Paesi, piuttosto che di concorrere ad alimentarla, con le sparizioni forzate organizzate da servizi segreti stranieri.
      In ogni caso nel nostro Paese, quando si affronta il tema della sicurezza, deve essere chiaro che l'11 settembre non è l'unica data che ci possa dire qualcosa. Ci sono date anche più importanti.
      Per noi l'11 settembre è iniziato il 12 dicembre del 1969, con la strage di Piazza Fontana a Milano che è passata alla storia come «strage di Stato».
      Il nostro Paese ha vissuto una stagione di stragi, di terrorismo, di tentativi di colpi di Stato e di altri fatti eversivi, di fronte ai quali le strutture dello Stato deputate alla tutela della sicurezza dei cittadini e delle istituzioni democratiche o non hanno funzionato o hanno funzionato al contrario, tutelando l'illegalità e alimentando l'insicurezza.
      Una visione globale di questi fenomeni si può ritrovare nelle pagine conclusive della sentenza ordinanza del giudice istruttore di Milano, dottor Guido Salvini, del 18 marzo 1995 (nel procedimento penale 721/88F), che chiudeva una prima tranche di una inchiesta che ha preso in considerazione numerosi fatti eversivi a partire dalla strage di Piazza Fontana.
      Scriveva, il giudice Salvini: «Alla luce di quanto emerso in questa ed in precedenti istruttorie in materia di stragi ed eversione di destra, appare francamente inaccettabile la tesi riduttiva secondo cui le attività definite impropriamente "devianti" sarebbero riconducibili a singole "mele marce" all'interno dei servizi segreti, mosse da affinità ideologiche con gli autori delle stragi e dei tentativi di golpe ed appoggiate da qualche uomo politico rimasto quasi sempre nell'ombra.
      Più probabilmente la presenza di settori degli apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata "deviazione", ma normale esercizio, per un lungo periodo, di una funzione istituzionale.
      Basti pensare alla reiterazione nel tempo delle protezioni e degli inquinamenti probatori, alla continuità dei collegamenti e al fatto che tutte le presunte deviazioni dei servizi segreti italiani, quanto meno fra la fine degli anni '60 e la fine degli anni '80 (e forse oltre, tenendo presente la distruzione del materiale concernente la struttura Gladio nel 1991),
 

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hanno sempre avuto come protagonisti principali i direttori o alti ufficiali del servizio e non semplici articolazioni periferiche. (...) È quindi più corretto affermare che non di "deviazioni" si trattasse, ma che in Italia, nel periodo indicato, abbia operato un complesso di organismi e di gruppi con legami nei servizi segreti, nelle Forze di polizia, ed in altri settori della Pubblica amministrazione, che intendeva attuare il progetto politico sottostante alle stragi, tutelandone gli esecutori, anche molti anni dopo gli eventi. (...) La protezione accordata agli autori delle stragi non è quindi avvenuta in forma episodica, ma all'interno di un rapporto organico di dipendenza e di un disegno strategico a livello più alto.
      D'altro canto un fenomeno così grave come la protezione dei sospetti autori delle stragi si è ripetuto con le stesse modalità in tutte le indagini concernenti le sette stragi «storiche» (Piazza Fontana, treno di Gioia Tauro, Questura di Milano, Piazza della Loggia, treno Italicus, stazione di Bologna e Ustica) e non si può davvero pensare che il fatto sia casuale. A ciò si aggiungano i vari colpi di Stato, tentati o minacciati, i quattordici attentati a treni che potevano risolversi in altrettante stragi (...) ed i rapporti fra terrorismo di destra, la mafia, la 'ndrangheta e un'organizzazione complessa come la P2, eventi tutti che non avrebbero potuto ripetersi se non fossero stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con ogni probabilità il mantenimento del nostro paese nel campo dell'Alleanza atlantica.» (Regione Toscana, Educare alla legalità, «I servizi segreti in Italia» di Giuseppe De Lutiis, pagina 151).
      Orbene è evidente che se vogliamo affrontare il problema del buon funzionamento dei servizi di intelligence nel nostro Paese, il problema dell'efficienza e della capacità operativa non può essere separato da quello dell'affidabilità democratica, del controllo politico-parlamentare e della responsabilità politica delle operazioni degli apparati di sicurezza.
      La storia del nostro Paese ci ha drammaticamente insegnato che quando viene meno l'affidabilità democratica, viene meno anche la capacità degli apparati di tutelare la sicurezza dei cittadini e delle istituzioni democratiche. Quindi in Italia il problema della tutela della sicurezza dei cittadini e delle istituzioni democratiche è tutt'uno con il problema della piena affidabilità democratica degli apparati preposti alla sicurezza e del recupero della nostra sovranità nazionale. Non si può dare l'una senza l'altra.
      È questo il contesto in cui deve essere collocato ogni discorso che si ponga il problema della riforma degli apparati di sicurezza, tenendo conto che il nostro Paese ha pagato un prezzo altissimo per le vicende della guerra fredda, per cui la tutela della sicurezza deve essere orientata a 360 gradi, contro ogni genere di minaccia, tanto quelle che vengono dai nostri (apparenti) nemici, quanto quelle che vengono dai nostri (apparenti) amici.
      La riforma del 1977 è intervenuta in un momento in cui - grazie soprattutto alle inchieste condotte dalla magistratura di Padova e di Milano - erano emersi squarci di vicende eversive gravissime, sulle quali fino ad oggi non si è ancora fatta compiutamente luce, di fronte alle quali il Parlamento ha sentito il bisogno di reagire. Basti pensare all'arresto del capo del SID, il generale Vito Miceli, avvenuto il 31 ottobre 1974, sulla base di un mandato di cattura emesso dal giudice Tamburino nel quadro dell'inchiesta sulla cosiddetta «rosa dei venti».
      La riforma si inseriva nell'onda di quel processo riformatore che, nel corso degli anni '70, portò ad una espansione della democrazia e dei diritti civili (dallo statuto dei lavoratori, al divorzio, alla riforma del diritto di famiglia, alla riforma carceraria, alla legge sull'aborto, alla legge Basaglia, eccetera) e si estese - con maggiori limiti e difficoltà - alle istituzioni, introducendo delle forme di maggiore democratizzazione nei meccanismi dello Stato, in applicazione del dettato costituzionale.
      In questo contesto si è proceduto alla riforma dell'ordinamento dei servizi segreti (legge 24 ottobre 1977, n. 801), alla
 

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riforma delle Forze armate e della disciplina militare (legge 11 luglio 1978, n. 382) e, infine, alla riforma e alla smilitarizzazione della Polizia attuata con la legge 1o aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza).
      La riforma del 1977 introduceva delle grandi novità e apportava, dal punto di vista giuridico, una autentica rivoluzione nel settore, con l'obiettivo di rimediare alle cosiddette «deviazioni», che erano emerse in modo così drammatico negli anni '70.
      Il merito principale della riforma del 1977 è che essa metteva a fuoco i problemi principali:

          a) la responsabilità politica;

          b) l'organizzazione dei servizi e del personale secondo una disciplina definita dalla legge;

          c) il controllo parlamentare;

          d) la gestione del segreto.

      Il demerito fondamentale della riforma del 1977 è costituito dal fatto che le soluzioni proposte ai vari problemi messi a fuoco spesso si sono dimostrate insufficienti, inattuabili o velleitarie.
      Basti pensare alla norma-manifesto di cui all'articolo 8 della legge n. 801 del 1977, che richiedeva l'affidabilità democratica dei membri dei servizi. L'esperienza storica ha dimostrato che, pur dopo l'entrata in vigore della riforma, sono rimaste in auge le logiche che la riforma voleva correggere. Non è avvenuto certamente per caso che, negli elenchi della P2, scoperti il 17 marzo 1981, si siano trovati i nomi dei dirigenti dei «vecchi» servizi segreti, accanto ai nomi di tutti i dirigenti dei «nuovi servizi segreti», come Giuseppe Santovito, capo del SISMI, Giulio Grassini, capo del SISDE e Walter Pelosi, capo del CESIS.
      Le deviazioni del cosiddetto «Supersismi» nel periodo 1978-1981 furono accertate dalla magistratura e sono descritte nella sentenza della Corte d'assise di Roma del 29 luglio 1985 (nel procedimento contro Pazienza Francesco più cinque).
      La vicenda di Gladio, emersa soltanto nell'agosto-ottobre 1990, e dopo che la magistratura era arrivata molto vicino a scoprirla (a seguito di una indagine supplementare del giudice istruttore veneziano Felice Casson sulla strage di Peteano) grazie a una rottura da parte del Presidente del Consiglio dei ministri dell'epoca, onorevole Giulio Andreotti, del patto di «omertà atlantica», dimostra che il quadro normativo sull'ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza, come disciplinato dalla legge n. 801 del 1977, non aveva minimamente funzionato, come non aveva funzionato la disciplina del controllo parlamentare.
      Infatti una struttura militare clandestina, gestita dal servizio segreto militare, come quella di Gladio, era assolutamente incompatibile con le garanzie oggettive introdotte dall'articolo 10 della medesima legge n. 801 del 1977, mentre il ruolo del CESIS si è dimostrato inconsistente, dal momento che questo organo neppure era a conoscenza dell'esistenza di Gladio.
      Peraltro uno dei problemi posti dalla vicenda di Gladio riguarda la carenza di disposizioni per la tutela degli archivi. Ciò ha consentito che venisse distrutta - impunemente - una enorme quantità di documenti, fra il 26 luglio e il 2 agosto 1990, in concomitanza con l'accesso del giudice Casson agli archivi del SISMI (peraltro una imponente documentazione era stata già distrutta nel 1975 e negli anni precedenti). In questo modo è stata vanificata quella disposizione dell'articolo 12 della legge citata che vieta che possano essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordine costituzionale. Infatti, una volta distrutti i documenti, non è più possibile verificare se determinate attività fossero eversive o meno.
      Quindi possiamo dire che la riforma del 1977, pur avendo grandi meriti, ha funzionato poco e male. Soprattutto ha consentito che al di sotto del livello legale delle istituzioni rimanesse in vita, come in un iceberg, un livello occulto, un doppio Stato, una struttura di potere reale, impermeabile

 

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alle regole delle istituzioni democratiche ma fortemente agganciata a un potere politico-militare che trascende il nostro Paese.
      Basti pensare alla disciplina del segreto e alla sua tutela. La legge n. 801 del 1977 assegnava al Presidente del Consiglio dei ministri i poteri di autorità nazionale per la sicurezza, ma non indicava chi dovesse esercitare nei fatti tale funzione. Soltanto nel luglio del 1991 il Presidente del Consiglio dei ministri ha sottratto al direttore del SISMI le funzioni di autorità nazionale per la sicurezza, attribuendole al segretario del CESIS. Dall'entrata in vigore della Costituzione, per oltre quaranta anni, i poteri di autorità nazionale per la sicurezza sono stati esercitati dal capo dei Servizio segreto militare.
      Questo significa che, per oltre quaranta anni, nessun funzionario della pubblica amministrazione, sia civile che militare, ha potuto accedere a cariche di responsabilità (questore, prefetto, ambasciatore, ufficiale nella Forze armate, eccetera) senza il beneplacito del capo del Servizio segreto militare.
      In una deposizione resa il 14 ottobre 1969, il generale De Lorenzo affermò che il «nulla osta di sicurezza» di fedeltà alla NATO sarebbe stato necessario non solo per svolgere mansioni direttive nei ministeri o nelle grosse industrie, ma anche per ricoprire incarichi di Governo» (citato da Giuseppe De Lutiis, «I servizi segreti in Italia», pagina 137).
      Per oltre quaranta anni i servizi segreti hanno tenuto sotto controllo tutti i gangli vitali dell'amministrazione pubblica e, persino, i governi.
      Probabilmente anche la STASI nella Repubblica democratica tedesca svolgeva funzioni simili, ma in un ordinamento democratico, fondato sulla Costituzione, questo è assolutamente inammissibile.
      Una volta che abbiamo inquadrato i problemi posti sul tappeto in questo contesto storico e normativo, allora possiamo passare ad esaminare la presente proposta di riforma. Essa riprende, rielaborandolo, il proficuo lavoro svolto dalla Commissione istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26 marzo 1997 e presieduta dal generale Roberto Jucci. La Commissione concluse i lavori nel novembre 1997, licenziando un testo di riforma complessiva della materia (ordinamento del sistema delle informazioni per la sicurezza), composto da 66 articoli, preceduto da una approfondita relazione, che chiariva le scelte effettuate e le esigenze che le avevano dettate. Il testo elaborato dalla Commissione Jucci non fu mai presentato al Parlamento. Il Governo D'Alema presentò nella XIII legislatura un disegno di legge (atto Senato n. 4162) che si ispirava alle proposte elaborate dalla Commissione Jucci, escludendone però le soluzioni più innovative. È facile ipotizzare che la riforma fu bloccata perché essa incideva «con il bisturi» su una serie di nodi istituzionali, modificando l'assetto dei poteri di fatto in questo settore.
      La presente proposta di legge riprende l'articolato elaborato dalla Commissione Jucci, revisionando il testo alla luce delle modifiche normative nel frattempo intervenute, operando alcune variazioni e introducendo due ulteriori sezioni nella parte finale del capo III.
      Gli aspetti principali sono i seguenti.

A)  Rafforzamento della responsabilità politica per la direzione degli apparati di sicurezza.

      Se è scontato che l'alta direzione e la responsabilità generale della politica informativa e di sicurezza spettano al Presidente del Consiglio dei ministri, non è per nulla scontato come ciò in concreto possa essere esercitato. La legge n. 801 del 1977 prevedeva soltanto la possibilità che il Presidente del Consiglio dei ministri delegasse un Sottosegretario di Stato a presiedere, in sua vece, il CESIS.
      Il testo elaborato dalla Commissione Jucci introduceva una innovazione radicale, prevedendo l'istituzione di un Ministro senza portafoglio delle informazioni per la sicurezza, nominato dal Presidente della Repubblica congiuntamente con la nomina dei Ministri. Delegato dal Presidente

 

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del Consiglio dei ministri, questo Ministro seguiva concretamente e sistematicamente l'attività degli organismi informativi, assumendosene la responsabilità.
      Tale soluzione tendeva a limitare l'irresponsabilità degli apparati di sicurezza, sottoponendoli ad un controllo - reale e non fittizio - da parte dell'autorità politica e, nello stesso tempo, a responsabilizzare maggiormente le autorità politiche per le attività compiute dai servizi. Questo controllo reale non può essere esercitato dal Presidente del Consiglio dei ministri e da qui nasce la necessità di istituire la figura di un Ministro senza portafoglio.
      In proposito la Commissione richiamava un rapporto del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, dove veniva rilevato che: «i poteri di coordinamento affidati ad un Sottosegretario, nei ristretti limiti della legge n. 801 del 1977 non offrirono alcuna garanzia di controllo politico sulla condotta dei Servizi. Da una delega così ristretta ed incerta non poteva scaturire una compiuta vigilanza, né un potere di guida dell'attività dei Servizi. Peraltro le deviazioni non furono individuate neanche dai Ministri competenti, da cui i Servizi direttamente dipendevano» (Primo rapporto sul sistema di informazione e sicurezza, 6 aprile 1995).
      Nel testo formulato dalla Commissione il Ministro delle informazioni per la sicurezza costituisce, nell'ordinario fluire dell'attività, il vertice effettivo degli organismi informativi e ne assume ogni responsabilità.
      A seguito dell'entrata in vigore della legge 26 marzo 2001, n. 81, che ha modificato l'articolo 10, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, istituendo la figura del Sottosegretario di Stato a cui può essere attribuito il titolo di Vice Ministro, è apparso più opportuno che il ruolo originariamente previsto per un Ministro senza portafoglio venga assegnato a un Sottosegretario di Stato, con delega al Dipartimento governativo per la sicurezza (di cui all'articolo 5) che assuma il titolo di Vice Ministro. Pertanto è previsto, all'articolo 2, che il Presidente del Consiglio dei ministri esercita, in via ordinaria, le funzioni di alta direzione, responsabilità e coordinamento della politica informativa per la sicurezza, mediante delega a un Sottosegretario di Stato, che assume il titolo di Vice Ministro. Non sono delegabili soltanto le funzioni politicamente più significative come quelle in tema di segreto e di vigilanza sui criteri di classificazione.

B)  Riorganizzazione del settore della sicurezza: le scelte funzionali.

      Viene mantenuta la scelta di un sistema binario, con due Agenzie di intelligence. Al riguardo sono sempre valide le osservazioni della Commissione Jucci che ha valutato l'opportunità di istituire un unico organismo di intelligence (si tratta di una proposta che ogni tanto riaffiora nel dibattito politico), ma l'ha esclusa, adducendo «il giusto rilievo da dare agli equilibri istituzionali contemplati dalla Costituzione ed alla esigenza di peculiari controlli propri di uno Stato di diritto».
      Non c'è dubbio che la scelta di mantenere in piedi un sistema binario è una scelta opportuna perché garantisce il mantenimento di un maggiore pluralismo istituzionale, evitando che l'attività degli organismi di sicurezza sia completamente schiacciata sul sistema militare, con una concentrazione di potere enorme in poche mani.
      Il problema è quello di definire meglio gli ambiti di competenza delle due Agenzie e di coordinare in modo effettivo il loro lavoro in modo da evitare duplicazioni o spreco di risorse.
      In materia la Commissione Jucci fa una proposta innovativa, prefigurando dei centri operativi unici. Prevede, infatti, che l'Agenzia delle informazioni per la sicurezza esterna (AISE) utilizzi, per le attività svolte in territorio nazionale, i centri operativi dell'Agenzia delle informazioni per la sicurezza interna (AISI) e che quest'ultima, per le attività da compiere all'estero, utilizzi i centri operativi dell'AISE.
      Pur mantenendo il sistema binario, nella presente proposta di legge viene modificato, ma non abbandonato, il sistema

 

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della dipendenza funzionale delle due Agenzie dai Ministeri dell'interno e della difesa.
      La soluzione adottata è quella della doppia dipendenza: dal Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza e dal Ministro competente (difesa o interno).
      Nel progetto di legge viene previsto un Consiglio nazionale per la sicurezza della Repubblica, composto dal Presidente del Consiglio dei ministri (che lo presiede), dal Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza e dai Ministri degli affari esteri, dell'interno, della difesa e dell'economia e delle finanze. Si tratta di un organo che assomiglia al Comitato interministeriale, previsto dalla legge n. 801 del 1977 (CIIS), ma che se ne differenzia perché non è un organo solo di consulenza, ma può assumere anche delle decisioni, come sede collegiale di attuazione dell'indirizzo politico nel settore.
      È prevista l'istituzione (articolo 5) del Dipartimento governativo per la sicurezza (DGS), a cui è preposto un direttore esecutivo (articolo 6), che dipende direttamente dal Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza, il quale deve garantire il coordinamento e l'unitarietà dell'attività delle due Agenzie. Nell'ambito del Dipartimento sono istituiti l'Ufficio centrale per la segretezza, l'Ufficio centrale per il coordinamento degli archivi e l'Ispettorato. Presso il Dipartimento è costituito (articolo 7) un Comitato tecnico esecutivo (CTE), che corrisponde, grosso modo, all'attuale CESIS.

C)  Il rafforzamento delle garanzie: amministrative, politiche e parlamentari.

      La proposta di legge opta per un deciso rafforzamento delle garanzie attivabili per verificare il corretto funzionamento degli apparati di sicurezza:

          1) Ispettorato. È stata compiuta una scelta importante prevedendo l'istituzione di un Ispettorato (articolo 10), alle dirette dipendenze del Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza. L'Ispettorato ha il compito di verificare sia la corretta gestione degli organismi informativi nell'impiego delle risorse ad essi assegnate (ivi compresa la verifica della corretta gestione dei fondi riservati), sia il rispetto delle direttive emanate dalle autorità politiche. Esso ha funzioni di controllo di legittimità e di efficienza, sul modello dell'ispettorato della Banca d'Italia. Si tratta di una prima linea di controllo interno, che in Italia non è mai esistita, la cui istituzione è quanto mai opportuna;

          2) archivi. Un'altra garanzia importantissima è quella che attiene al problema degli archivi. È prevista l'istituzione presso il DGS di un ufficio centrale per il coordinamento degli archivi, con la funzione di vigilare sulla sicurezza, la tenuta e la gestione degli archivi (articoli 12 e 13). In particolare è previsto che gli archivi delle due Agenzie conservino esclusivamente la documentazione relativa alle operazioni in corso e riversino tutta la documentazione nell'Ufficio centrale per il coordinamento degli archivi. Particolare attenzione è riservata alla documentazione delle spese riservate e a quella delle condotte per le quali opera la speciale causa di non punibilità prevista dalla proposta di legge (articolo 32). Norme penali speciali tutelano gli archivi da ogni forma di manomissione e di accesso illegittimo (articoli 40 e 41);

          3) controllo parlamentare. È unanimemente condivisa l'esigenza di rafforzare il controllo parlamentare sull'attività dei Servizi, ma non sempre le soluzioni proposte sono pertinenti. La presente proposta di legge prende il testo della Commissione Jucci, modificandolo per rendere ancora più funzionali i poteri di controllo del Parlamento. È previsto che al Comitato parlamentare per la sicurezza (articolo 4) siano attribuiti incisivi poteri di controllo, ivi compresi il controllo del bilancio e il rendiconto delle spese riservate, con la possibilità di accedere agli archivi per il controllo diretto della documentazione di spesa. Il Comitato quindi può acquisire dal Governo informazioni che devono rimanere riservate o segrete. A tutela del segreto è prevista una sanzione efficace,

 

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quale la decadenza dalla funzione parlamentare e l'ineleggibilità successiva. Qualora l'opposizione del segreto di Stato venga reputata infondata dal Comitato parlamentare, è data facoltà ai Presidenti delle due Camere di sollevare conflitto di attribuzione.

D)  Il personale e le garanzie funzionali.

      1) Temporaneità. Un altro aspetto innovativo del testo della Commissione Jucci è la temporaneità della permanenza al servizio, per tre anni, rinnovabile una sola volta, eccezionalmente per due volte, per una permanenza massima di nove anni e la previsione dell'avvicendamento totale del personale in servizio nel termine di cinque anni. Su questo punto si sono concentrate le resistenze più forti da parte di quanti hanno obiettato che la temporaneità avrebbe comportato una inevitabile perdita di professionalità. La questione è molto delicata. Non v'è dubbio, infatti, che la temporaneità incida negativamente sulla professionalità. E tuttavia il mantenimento della temporaneità, assieme all'esigenza di ricambio totale di tutto il personale, sono dei punti di forza per una trasformazione reale dell'ordinamento della sicurezza. La soluzione qui proposta (articolo 21) prevede di fissare in cinque anni il periodo di permanenza ordinario, rinnovabile una sola volta, o, per speciali esigenze due volte (in casi eccezionali tre o quattro volte). In questo modo una permanenza media di dieci-quindici anni assicurerebbe un elevato livello di qualificazione professionale, senza rinunziare ai benefìci del ricambio. Viene, invece, fissato in sei anni il tempo massimo per procedere al rinnovo totale del personale attualmente in servizio. Per quanto riguarda i vertici degli organismi informativi, vale a dire il direttore esecutivo, i direttori delle due Agenzie, i capi dell'Ispettorato, dell'Ufficio centrale per la segretezza e dell'Ufficio centrale per il coordinamento degli archivi, è previsto che il periodo di permanenza in servizio sia di quattro anni, rinnovabile una sola volta;

      2) Garanzie funzionali. La proposta di legge affronta il problema delle cosiddette «garanzie funzionali» per gli operatori dei servizi, problema lasciato irrisolto dalla legge n. 801 del 1977, cioè delle cause di non punibilità per il personale che commetta dei fatti, astrattamente previsti come reati, nell'ambito dell'attività di servizio.
      Si tratta di una questione molto delicata, che non può essere ulteriormente accantonata.
      In effetti nell'attività di intelligence rientrano - per loro natura - attività che potrebbero astrattamente costituire reato: basti pensare al problema delle attività sotto copertura. La questione non può essere ignorata. Essa è stata accantonata dalla legge n. 801 del 1977 perché all'epoca non erano maturi ancora i tempi per compiere delle scelte responsabili e chiare. Oggi, dopo la vicenda Abu Omar, dopo che sono stati scoperti i voli segreti della CIA in Europa, ed è stata riconosciuta ufficialmente l'esistenza di prigioni segrete della CIA in Europa, è quanto mai opportuno e urgente che vengano poste delle regole chiare. È vero che in altri Paesi occidentali con sistemi giuridici analoghi al nostro non esistono disposizioni normative che autorizzano gli operatori dei servizi di intelligence a compiere attività altrimenti illecite. Questo però non vuol dire che i servizi di intelligence dei Paesi occidentali rispettino rigorosamente le leggi. Vuol dire soltanto che gli Esecutivi si sono riservati il diritto di consentire o meno determinate azioni secondo canoni di mera opportunità, al di fuori di ogni quadro legale. Per questo introdurre una disciplina in materia è una forma di «garantismo», sempre che si tratti di una disciplina rigorosa e coerente.
      La scelta compiuta non è stata quella di individuare in modo tassativo le condotte autorizzabili (cioè di descrivere le singole fattispecie - astrattamente illecite - da considerare ammissibili per ragioni di servizio), ma di indicare in modo positivo i beni giuridici assolutamente non aggredibili.
      L'articolo 32 della presente proposta di legge esclude dalla non punibilità quelle condotte che configurano delitti che mettono

 

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in pericolo la vita, l'integrità fisica, la libertà personale, la salute o l'incolumità pubbliche.
      La disciplina di questa speciale causa di giustificazione è rigorosa perché non si limita ad autorizzare astrattamente comportamenti illeciti, ma richiede la congruità dell'azione con i fini istituzionali legittimamente perseguiti e la proporzionalità fra i fini ed i mezzi adoperati (articolo 33).
      Inoltre è previsto (articolo 34) che tali operazioni debbano essere espressamente autorizzate dal Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza, che ne deve informare il Presidente del Consiglio dei ministri e deve ottenere il previo parere positivo di un Comitato di garanzia, composto da personalità indipendenti, i cui membri sono eletti dal Comitato parlamentare per la sicurezza, per un periodo di cinque anni non rinnovabile (articolo 36). Una ulteriore garanzia (articolo 35) è costituita dal prevedere come reato il comportamento di quegli operatori che preordinano dolosamente le condizioni per il rilascio delle autorizzazioni.
      Quando si verificano tutte le condizioni di cui sopra e sono state rispettate le procedure previste, il direttore esecutivo del DGS, su richiesta del direttore dell'Agenzia può opporre all'autorità giudiziaria che procede l'esistenza della causa di non punibilità (articolo 37). In questo caso l'autorità giudiziaria informa il Presidente del Consiglio dei ministri, che deve confermarla entro sessanta giorni. In mancanza di conferma la scriminante non opera. Inoltre l'autorità giudiziaria, se non è convinta della legittimità del ricorso alla causa speciale di giustificazione, può proporre conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale.

E)  La tutela del segreto e le garanzie contro gli abusi della secretazione.

      La normativa proposta affronta il nodo - sinora irrisolto - di una disciplina organica del segreto di Stato e della classificazione dei documenti, coerente con l'impianto complessivo della riforma.
      Al riguardo è prevista (articolo 11) l'istituzione dell'Ufficio centrale per la sicurezza (che corrisponde all'attuale UCSI, istituito presso il CESIS) che, pure posto all'interno del DGS e parte integrante degli organismi informativi, risponde direttamente del suo operato al Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza e al Presidente del Consiglio dei ministri. Compito dell'Ufficio è quello di verificare le condizioni per il rilascio dei nulla osta di segretezza e di controllare le procedure e le modalità di apposizione delle classifiche di segretezza.
      Viene messo a fuoco il concetto di segreto di Stato e se ne precisano i fondamenti, i limiti e le finalità (articoli 49 e 50) e viene chiarito il rapporto fra classifica di segretezza e segreto di Stato. Mentre, infatti, la classifica di segretezza degli atti, dei documenti e delle cose attiene esclusivamente ai vincoli di circolazione e alla delimitazione dell'ambito di conoscibilità dell'oggetto della classifica, il segreto di Stato è posto a tutela degli interessi fondamentali della Repubblica e può cadere sia su atti, su documenti o su cose (indipendentemente dalla loro classifica), che su notizie o su attività. In questo contesto, la scelta veramente innovativa è quella di introdurre il principio della temporaneità della secretazione, assoggettando i documenti secretati a meccanismi automatici di declassifica con il passare del tempo (articolo 56).
      Per quanto riguarda la disciplina processuale dell'opposizione del segreto di Stato, viene confermato il sistema attuale che prevede che il segreto debba essere confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri entro sessanta giorni dalla richiesta dell'autorità giudiziaria procedente. Al riguardo vengono poste una serie di delimitazioni rigorose per evitare un esercizio arbitrario di tale potere. Infatti è previsto che il segreto di Stato non possa essere opposto per fatti commessi in violazione della disciplina sulla causa di non punibilità. In ogni caso non possono essere oggetto di segreto fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti all'eversione dell'ordine costituzionale e altri

 

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gravi reati fra i quali quelli concernenti il traffico illegale di materiale nucleare, chimico e biologico (articolo 51). Inoltre è esplicitamente prevista la possibilità dell'autorità giudiziaria di sollevare conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale, alla quale non può essere opposto il segreto di Stato. Per completare le garanzie del sistema, sono previste sanzioni disciplinari e penali in caso di abusiva o illegale apposizione della classifica di segretezza (articoli 57 e 58).
      Tuttavia, in tema di segreto è rimasta aperta una questione che neppure la Commissione Jucci sì è sentita in grado di affrontare, vale a dire quel «grumo» di degenerazioni istituzionali connesso alla pratica degli accordi internazionali segreti.

F)  Le degenerazioni connesse alla pratica degli accordi internazionali segreti: i rimedi proposti.

      Nel quadro della disciplina organica del segreto di Stato come delineato dalla Commissione Jucci è rimasta inaffrontata una questione di grande spessore politico che nel nostro Paese si pone come una grande questione democratica: quella della inammissibilità della stipula di accordi internazionali segreti o coperti da segreto di Stato.
      L'esperienza storica ci dimostra che la diplomazia segreta ha avuto un ruolo nefasto nel nostro Paese. Basti pensare allo sciagurato Trattato di Londra stipulato segretamente il 26 aprile 1915, con il quale il Governo Salandra, con la complicità del Re d'Italia, Vittorio Emanuele III, e all'insaputa del Parlamento, che era nella sua maggioranza contrario alla guerra, impegnò il nostro Paese ad entrare in guerra nel termine di un mese. In questo modo fu sottratta al circuito della democrazia una scelta che si è rivelata esiziale per il futuro del nostro Paese, provocando sofferenze e lutti inenarrabili al popolo italiano (oltre 750.000 morti). Peraltro il Trattato di Londra si venne a conoscere solo perché, all'indomani della rivoluzione russa, nel novembre 1917, fu pubblicato dal giornale «Izsvestia». La Costituzione italiana, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, ha ripudiato la pratica ignobile dei trattati segreti, prevedendo, agli articoli 80 e 87, una disciplina trasparente, con l'autorizzazione del Parlamento e l'intervento del Presidente della Repubblica per la ratifica dei trattati internazionali di rilevanza politica.
      Purtroppo l'esperienza storica della seconda metà del novecento dimostra che, malgrado il chiaro dettato costituzionale, la diplomazia segreta non è stata messa al bando e oggi noi siamo avvolti da una ragnatela di accordi, che vincolano il nostro Paese sul piano delle relazioni internazionali, senza che il Parlamento conosca neppure l'elenco degli accordi attualmente ancora vigenti. Ciò è stato indubbiamente determinato dalle condizioni umilianti di sovranità limitata che il sistema della guerra fredda ha imposto al nostro Paese.
      Orbene, la diplomazia segreta è inammissibile nel nostro ordinamento perché contrasta con il principio della responsabilità politica dell'azione di Governo e con il principio del controllo parlamentare, che costituiscono il cardine del rapporto di fiducia. Del resto attraverso la diplomazia segreta si sono compiute scelte molto vincolanti e impegnative per il nostro Paese, le cui conseguenze sono destinate a durare per un numero indeterminato di anni (basti pensare agli accordi di concessione agli Stati Uniti di basi e di facilitazioni militari). Non dimentichiamo che Gladio è nato da un accordo segreto stipulato dal SIFAR con il servizio segreto americano il 26 novembre 1956. Anche dietro la recente vicenda del rapimento da parte di agenti della CIA dell'egiziano Abu Omar, scomparso a Milano il 17 febbraio 2003, si staglia l'ombra di accordi segreti nelle relazioni con un Paese delle NATO, che hanno costretto l'attuale Governo ad opporre il segreto di Stato innanzi al competente Comitato parlamentare.
      La riforma dell'ordinamento dei servizi di intelligence non sarebbe completa se non prevedesse dei rimedi per contrastare questa pratica politica incostituzionale.
      Per questo la disciplina del segreto di Stato proposta dalla Commissione Jucci è

 

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stata completata con l'introduzione di un apposito comma all'articolo 50, che prevede che: «I trattati e gli accordi internazionali, in qualunque modo conclusi, non possono essere stipulati in forma segreta e devono sempre essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale (...)». La norma, peraltro, ribadisce un divieto che esiste già nel nostro ordinamento in quanto il testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092, all'articolo 13 prevede la pubblicazione, nella prima parte della Gazzetta Ufficiale, di tutti gli accordi internazionali conclusi in forma semplificata, nonché la pubblicazione, in un supplemento trimestrale, di tutti gli atti internazionali ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, compresi gli scambi di note e gli accordi comunque denominati.
      Per rendere effettivo tale divieto, in presenza di una consolidata e illegittima prassi difforme, è stata introdotta una specifica fattispecie di reato (articolo 58, comma 2).
      Inoltre è stato precisato che gli organismi di intelligence non hanno la competenza a stipulare accordi internazionali di alcun genere, neppure con organismi analoghi di altri Paesi (articoli 6, 16 e 19). Nel settore delle informazioni per la sicurezza gli accordi devono essere stipulati dai Ministri competenti ed esaminati dal Consiglio dei ministri ai sensi dell'articolo 2, comma 3, della legge n. 400 del 1988.

G)  Emersione dei fatti eversivi e degli accordi segreti.

      E infine, da ultimo ma non per ultimo in ordine di importanza, in un progetto di riforma organico dell'ordinamento dei servizi segreti, non si possono ignorare gli eventi passati. Per cambiare pagina non si può mettere «una pietra» sopra alle degenerazioni e agli abusi commessi. In questo delicato settore istituzionale il risanamento coincide con la conoscenza. Coloro che sanno, devono parlare e devono essere incoraggiati a farlo. È questa la garanzia fondamentale che gli errori del passato non si ripeteranno più, che non ci saranno altre stragi di Stato, che non ci sarà un'altra Ustica. Togliere gli scheletri dagli armadi delle istituzioni è la nostra assicurazione per il futuro.
      Per questo, a completamento di questa disciplina organica di riforma, è stato previsto un meccanismo utile per consentire l'emersione dei fatti eversivi commessi in passato.
      L'articolo 63 prevede una causa speciale di non punibilità per tutti coloro che risultano implicati in fatti eversivi, commessi a causa o in occasione del servizio, qualora forniscano una piena e completa collaborazione ad una speciale Commissione istituita per fare luce sui misteri istituzionali della nostra storia recente. L'articolo 64 istituisce tale Commissione ad hoc, nell'ambito dell'Ispettorato, composta dal Vice Ministro delle informazioni per la sicurezza (o da un suo delegato permanente), dal capo dell'Ispettorato (o da un suo delegato permanente) e da cinque membri eletti dal Comitato parlamentare per la sicurezza, scelti fra storici, giuristi ed esperti di questioni militari e diplomatiche. È previsto l'obbligo per tutto il personale, anche in quiescenza, di riferire alla Commissione i fatti eversivi di cui è venuto a conoscenza, prevedendosi esplicitamente cessato l'obbligo del segreto, comunque generato. A seguito della collaborazione fornita, la Commissione trasmette gli atti, corredati da un proprio motivato parere, all'autorità giudiziaria per la dichiarazione di non punibilità. L'autorità giudiziaria, qualora reputi infondata la richiesta, può sollevare conflitto di attribuzione.
      Infine, l'articolo 65 prevede una procedura per l'emersione e la regolarizzazione degli accordi internazionali stipulati in forma segreta, o con clausola di non divulgazione.

 

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